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Ieri ho venduto lo scooter. Dover dire addio al mio fedele destriero compagno di tante cavalcate solitarie è stato molto triste, nonostante ci abbia fatto un discreto gruzzolo. Quel ammasso di lamiera, plastica, circuiti e gomme ha attraversato una buona fetta della mia vita.

Oggi mi tolgono internet, domani risolvo il contratto del cellulare, dopodomani termino anche acqua, luce e gas. Il 15 riconsegno le chiavi e passo la notte a casa dei genitori della mia dolce consorte.

Dall’altra parte ho trovato una stanza a Auckland, pagato la scuola, fatto il conto in banca (da quelle parti basta compilare un form online e poi andare ad attivarlo di persona una volta lì), l’assicurazione sanitaria e altre cosine. Insomma tutte quelle formalità spaccamaroni per le quali poi molta gente desiste dall’andarsene in giro.

12-12-11, ultimo post di questa esperienza Giapponese. Per poco non facevo il palindromo. Che poi 12 è sempre stato un numero ricorrente: 12 settembre partii per la Keio, 12 gennaio partii per la prima volta per Takasago, 12 ultimo giorno di lavoro, 12 gli apostoli di Gesù Cristo, 12 i segni zodiacali. E’ un caso? Sì.
Ma è inevitabile che nella mente si affaccino scene di questi 42 mesi (e sottolinerei il 42), come una lunga sigla finale di uno dei tanti episodi della mia vita e una sequela di domande che poi possono confluire tutta in una sola: ma alla fin fine ho fatto bene a vivere come ho vissuto?

Dunque vorrei fare alcune considerazioni.

Sono convinto che venire in Giappone sia stata un’ottima scelta, anche se piena di momenti difficili (e la parola “piena” da solo una pallida idea). In passato lo scrissi più per farmi coraggio che per convinzione, ma oggi sono dell’idea che rebus sic stantibus a fine 2007 non ci fosse veramente altro da fare. Dove sarei potuto andare con una laurea in giapponese, dottorato a parte (che esclusi subito)? Dopo aver raggiunto il Giappone ci sono stati anni di smarrimento per la fine del sogno (divenuto realtà) che aveva alimentato la mia vita fino ad allora, ma ho sempre potuto guardarmi allo specchio senza vergogna: la missione affidatami da un timido quattordicenne anni prima era stata portata a termine. Non oso immaginare cosa sarebbe successo se avessi rinunciato, probabilmente non me lo sarei mai perdonato e avrei rovinato la vita mia e di chi mi stava accanto.
Mi congratulo comunque con me stesso per aver resistito quasi quattro anni in una città che a uno straniero ha veramente poco da offrire (nonostante abbia sempre fatto di tutto per rendere Takasago una sorta di simpatico personaggio).

Diverso e più complesso il mio giudizio sulla scelta di studiare giapponese all’università. Se è vero che nessuna laurea garantisce un futuro luminoso, non mi stancherò mai di ripetere che fare di una lingua la propria unica specializzazione è un modo per complicarsi enormemente la vita, un assegno in bianco in mano al Destino Infame e provo sincera pena quando in giro per il web leggo le entusiaste parole dei giovani studenti di giapponese odierni: la maggior parte di loro si pentirà amaramente di aver intrapreso questa strada.
Voglio dare loro un consiglio: se proprio volete studiare giapponese almeno abbiate ben chiaro in mente che strada intraprendere dopo la laurea e dove cercare. Già durante gli studi cominciate a tastare quel settore, a conoscere gente, a fare qualche piccola esperienza, per non arrivare alla laurea intontiti a chiedervi “E adesso?”. Tracciarvi una rotta vi risparmierà molte grane.
Anche i miei figli, quando ne avrò, saranno liberi di scegliere, ma mi assicurerò che comprendano le implicazioni di quanto stanno facendo e che capiscano che eccellere in Storia Bizantina & affini è bello, ma non ti da il pane.

D’altra parte però sento che aver avuto un grande sogno, aver lottato a viso aperto per esso e infine averlo raggiunto mi ha reso una persona migliore. La mia è stata una grande avventura, tra vittorie e sconfitte, mosse azzeccate e errori, duelli all’ultimo sangue contro me stesso e quando ripenso al passato la mia stessa storia mi appassiona, in particolare le parti di cui non vi parlerò mai. Sì sarebbe stato più semplice studiare Economia e Commercio, ma forse mi sarei arenato e ingrigito anzitempo.
Senza considerare tutte le persone fantastiche che ho incontrato, in Italia e in Giappone. Certo, per le mie scelte altre non ne conoscerò mai, ma tutte le strade sono diverse e da questo punto vista credo di essere stato molto fortunato.

Ora l’avventura continua, anche se probabilmente non su questo blog. Ma i saluti li faremo a tempo debito che ancora non siamo pronti per il commiato.

Ieri ho preso un Chianti Ruffino 2009 a un bar qui vicino (lo vendono a poco prezzo anche al Max Value e al 7/11, ma avevo avuto una buona esperienza con questo in passato).
Questa volta non sono stato fortunato, la bottiglia non era granché, ma ho notato un odore di cui non avevo esperienza. All’inizio pensavo fosse vernice, poi ho capito: il famoso “smalto per unghie”.

Come si forma un odore simile in un vino?
Durante la maturazione in botte generalmente il vino subisce un processo di ossidazione (il legno lascia passare l’ossigeno in una certa misura). Gli alcoli si combinano con l’ossigeno, formando aldeidi e acidi. Questi ultimi a loro volta si combinano con l’etanolo (l’alcol presente nel vino) e formano gli esteri. Quando questi esteri sono troppi ecco il fastidioso odore di “smalto per unghie”.

Ce ne sono altri interessanti: cavallo e terra ritrovati in un blend Primitivo-Negramaro bevuto in Puglia quando ero in Italia, il pregevole idrocarburo del Riesling sperimentato più volte e la pipì di gatto del Sauvignon.

Ma tu guarda che cazzo ci mettono nel vino eh? :)

Come direbbero i Virgin Steele

Smile on the Son,
I am returning
back to the home of my birth

Certo lì Oreste tornava a Micene dopo l’assassinio di suo padre Agamennone da parte della moglie Clitemnestra, mi auguro di non trovare la stessa situazione.

The house of Tonarus act II